Riot Boudoir

La fotografia boudoir racchiude una contraddizione di fondo: pur essendo commissionata e pagata dal soggetto stesso, il suo linguaggio visivo ricalca quello di uno sguardo rubato—mostrando il soggetto femminile in un momento di trasformazione intima (una fase di passaggio tra il privato e il pubblico), ma incorniciando questa vulnerabilità attraverso una lente voyeuristica.

Tradizionalmente, il genere si basa sulla messa in scena di attimi trafugati di nascosto: il soggetto appare ignaro della fotocamera, il suo consenso è dato per scontato ma mai dichiarato, la sua presenza è passiva anziché attiva.
Questa convenzione, radicata nel Male Gaze (Mulvey, 1975), perpetua un racconto problematico in cui il desiderio femminile deve essere negato per rimanere socialmente accettabile—una dinamica del “no che significa sì” che riflette tensioni culturali più ampie sulla libertà delle donne.

Ispirandosi alla teoria della performatività di genere di Judith Butler (1990)—secondo cui l’identità non è un’essenza fissa, ma un insieme di atti ripetuti e intenzionali—Riot Boudoir trasforma l’atto di essere fotografati in un gesto di consapevolezza e scelta, non di esposizione passiva.

Il soggetto non è più confinato nell’ombra del boudoir ma prende il controllo della scena, occupando lo spazio con piena intenzione.
Qui, la rappresentazione non è più rubata né simulata, ma rivendicata con lucidità.

Lo sfondo neutro dello studio elimina i cliché estetici del boudoir classico (tendaggi di velluto, specchi dorati), mettendo al centro la volontà e la presenza del soggetto. Gli abiti—che si tratti di pizzo, denim o di una camicia oversize presa in prestito—non seguono più un copione prestabilito, ma diventano una dichiarazione personale.

Questo lavoro si inserisce nel solco delle critiche femministe contemporanee alla cultura visiva (Hooks, 1992; Bright, 1998), che mettono in discussione la rigida separazione tra ‘sexy’ e ‘rispettabile’.
Riot Boudoir rifiuta la narrazione voyeuristica del “non ho posato, sono stata scoperta” e abbraccia l’invito di Audre Lorde (1984) a usare la rappresentazione come strumento di autodeterminazione.

Il progetto non nega il fascino del boudoir tradizionale, ma ne sovverte le regole: perché la trasformazione deve avvenire nell’ombra? Perché l’empowerment deve necessariamente passare attraverso la lingerie?

In questo modo, Riot Boudoir offre una nuova prospettiva—dove il boudoir non è più una gabbia dorata né un palcoscenico costruito per lo sguardo altrui, ma uno spazio libero in cui esplorare, documentare e affermare la propria identità senza compromessi.